E' estremamente riduttivo a mio avviso concepire il periodo più arcaico e orale della letteratura Greca come un semplice periodo sine scripta. Tutto questo ha condotto gli studiosi ad analizzare, ovviamente, ciò che era più reperibile nel linguaggio, ovvero la metrica. Si, proprio quel aspetto della lingua greca, che non è altro che la cima dell'iceberg di un mondo ben più intricato e difficoltoso che è quello della cultura orale. Pensare che tutto si risolva in una mera narrazione di fatti, eseguita con una scansione esametrica è un grosso errore.
La tradizione c'ha impartito che alla base del sentimento nazionale greco vi sono innanzitutto le due opere omeriche e quindi l'Iliade e l'Odissea, composte secondo la tradizione da Omero e sorvoliamo su tutte le questioni a lui legate, non essendo argomento di questa trattazione. Oltre a lui vi erano altri aedi e molti come lui sono avvolti nella leggenda quali Tesche di Lesbo, Agia di Trezene, Arctino di Samo ed Eugammone di Cirene che sono tra le altre gli autori delle altre opere che formano il cosìdetto "Ciclo Omerico"). Ovviamente non ho dimenticato Esiodo, ma come non si manca mai di dire, il cantare di questo aedo era molto dissimile da quello di Omero e soci; Esiodo canta la vita dei campi ("Le Opere e i Giorni") e la nascita degli Dei ("La Teogonia") e ci tramanda anche un "Catalogo delle donne"; argomenti che lo collocano non in contemporanea con Omero (Erodoto colloca la sua nascita circa 400 anni più indietro e quindi intorno all'VIII sec.a.C).
La questione più importante, che è poi il fulcro di questa trattazione, è appurare l'uso della voce nella Grecia Arcaica. Allora immaginiamoci di essere intorno all'VIII/VII sec a.C, in Grecia.
Il nostro pubblico è formato da gente semplice, adamiticamente pronta a recepire e a dipingere sulla propria personale caverna ciò che vede, in assoluta semplicità. A questo punto giunge l'aedo, che comincia a narrare la sua Teogonia o un frammento di essa, con l'accompagnamento di una cetra che solitamente da forma e colore alle forze benigne e positive e l'aulos che rappresenta forze maligne e distruttrici. Trovandoci in una società totalmente orale, possiamo pensare che quella che oggi definiamo volgarmente "enfasi", fosse, in realtà qualcosa di molto potente, tale da incantare magicamente un auditorio e, non a caso, etimologicamente enfasi (empháino) significa "mostrare" o "esibire". Tutto questo tramite l'uso della voce, utilizzata non certo come oggi, in cui il largo ricorso alla scritto la porta in uno stato di sottoutilizzazione. Ritornando al nostro pubblico, questo veniva sottoposto ad una catarsi di massa, ad una rinascita dell'anima ad una contemplazione dell'ignoto dal Caos primordiale fino all'instaurazione del governo di Zeus, dall'oscurità primordiale alla luce del mondo. Il canto cosmogonico si configurava quindi come un vero e proprio pharmacòn, il vero rimedio, la cui composizione constava
del potente binomio versi/voce; versi potenti e voci flessibili, non certo in senso
stretto.
In questo caso, il cantante greco ma di acquisizione italiana Demetrio Stratos,
c'ha fornito un'impagabile servigio; quello di riaffrontare la problematica della voce
come lavoro a monte della mente e il ritrovare non tanto "i canti" quanto quel
micromateriale fonico, quelle variazioni impercettibili della voce che li compongono
e che li rendevano di grande potenza per l'auditorio. Questa fascinazione di massa,
questo vero e proprio ascolto patico, dettato tanto dagli argomenti, quanto dal modo
di esprimerli e farli passare attraverso la lingua sfruttando tutte le cavità interne
pare essere, in misure diverse, un'anticipazione dello status quo della tragedia,
di cui Aristotele nella sua Poetica, evidenzierà il suo vlore catartico e purificatore.
Il vivere come spettatori un sentimento, soprattutto se malvagio ci permette di
conoscerlo e domarlo , ma se non altro, si potrà vedere ed imparare pur nel gaudio di
un momento di puro divertissmant. In una parola delectare atque monere.
Ritornando alla valenza del canto cosmogonico di Esiodo, è attestato che la sua vis era tanta e tale da permettere ai campi di diventare rigogliosi e alla gente di guarire dai mali. Questo può essere spiegato semplicemente con una visione dell'armonia estesa a tutto il cosmo e di cui gli esseri umani facevano parte. Anche l'umanizzare il divino, caricarlo di significati, di valenze e comportamenti tipici degli uomini è un modo comunque di rendere tutto comunque connesso. La divinità con sue le passioni e i suoi vizi si avvicina agli uomini, ma gli uomini, col canto, la voce e la poesia, arrivavano a sondare il vero e proprio senso del divino, senza ricorrere al peyote sciamanico, ma attraverso quei coinvolgimenti emotivi tipici del canto e, come c'ha illustrato Stratos, anche degli scioglilingua (O Tziteras O Mitzeras).
In ultima analisi, un fattore da tenere estremamente in considerazione è l'idea che tutto ciò che noi leggiamo di Esiodo e di Omero era recitato a memoria. Sembra impossibile mantenere a mente 15.693 esametri dattilici come nel caso dell'Iliade o 12.000 come nel caso Odissea. Ovviamente i Greci come anche i Serbi, non erano all'oscuro dello studio della mnemotecnica, come non ha mancato di istruirci Parry (scuola oralista), circa le implicazioni comparatistiche fra l'opera omerica e i suoi paralleli tecnici nel mondo occidentale.
Lo studio condotto negli '70 da Demetrio Stratos, cantante del gruppo Area, ha portato a conoscenza, una certa fetta di studiosi della potenza del mezzo voce, analizzato sotto una triplice valenza, ossia quella scientifica, psicanalitica ed etnoantropologica. Il far passare tutto il corpo attraverso la lingua e con esso anche la mente fino ad avere una coscienza totale dell'ignoto e a muoversi nello spazio e nel tempo senza ferire ciò che si esplora.
Giunti a questo punto verrebbe in mente una cosa: il canto cosmogonico o, più in generale il canto realizzato alla maniera di Stratos, così vicino alla natura delle cose, così lontano dalla loro consistenza terrena, si configura come un parto o, socraticamente parlando "maieutica". Si rinasce, ad una nuova vita, e quivi pare ricordare Dante nel Paradiso, dove la presenza dei canti è garante di quell'ordine mistico preesistente sin dalla nascita del cosmo. La musica è armonia, la voce è armonia di corpo e spirito e ha la capacità di metterci in contatto con la radiazione primordiale dalla quale è cominciato tutto. Si nasce gridando e si muore in silenzio ma si vive parlando, senza spesso comprendere di cosa sono composte le nostre parole.
"L'ultimo canto del Thanatos libera il soggetto dall'incomprensione della cosmologia del suono e il suo avvenire"
(DEMETRIO STRATOS)